La cultura alimentare in miniera
Il lavoro in miniera tirava avanti di giorno e di notte in turni che duravano 10/12 ore. La pausa pranzo, perciò, si svolgeva sotto terra e si consumava tiepida o fredda, a seconda di quanto la pentola di coccio riusciva a preservare caldo il suo contenuto. Soprattutto all’inizio, uomini e donne si recavano insieme al posto di lavoro, perciò il pasto doveva essere cucinato precedentemente a casa.
La cultura prettamente contadina portava i minatori a produrre e consumare soprattutto legumi: fagioli, ceci, lenticchie e cicerchie, preparati in zuppa e accompagnati col pane o con pizza “scima” (non lievitata), erano all’ordine del giorno.
Tra i piatti più comuni le “foje e patane”, ossia minestre a base di patate e verze; e le sagne di loin (di legno), buone anche come piatto freddo: zucchine tagliate a julienne ed essiccate al sole, “rinvenute” in acqua bollente e cucinate con le patate, aglio, olio, peperoncino e peperone dolce secco. Era usanza consumare anche cipolla o aglio “pucciati” nel sale e poi mangiati a morsi con pane secco; il baccalà, con le patate o con peperoni arrosto; o le olive ‘ndosse, nere, spurgate col sale ed essiccate al sole con bucce di arancia, finocchietto selvatico, rosmarino, aglio e alloro.Qualcuno, oltre ad un pezzo di terra, aveva la fortuna di possedere pecore o maiali, e allora si poteva permettere un pezzo di pecorino o di ricotta, o prosciutto o salsiccia.
La loro bevanda era l’acquata, con cui temporeggiavano tra la vendemmia e il primo vino dell’inverno: non era altro che la spremitura ulteriore delle vinacce, che dava origine a una sorta di rosato. I più intraprendenti producevano anche la grappa e se la portavano a lavoro, a sostegno della fatica.
Con l’avanzare dell’industrializzazione le operazioni del trasporto si snellirono e la presenza femminile in miniera diminuì. Apparvero i primi panini, di solito con le frittate agli asparagi o agli ortaggi, spesso trasportati in una manica della giacca annodata, oppure mangiavano sardelle conservate sotto sale, acquistate in scatole di latta al mercato del venerdì. Si diffuse anche “lu torcinelle”, un salame fatto di fegatini, uova sode, frattaglie e milza e avvolto nelle budella di agnello tirate a lucido, poi cotto al forno e affettato una volta freddo.
Ora che le donne restavano a casa più a lungo, potevano sbizzarrirsi con la raccolta delle erbe spontanee come biete, cacigni, cicorie di campagna, tarassaco, o con la polenta, consumata dalla famiglia a cena direttamente sulla spianatoia di legno, o infine con le cotiche e fagioli.
I dolci del periodoerano tutti molto semplici e legati per di più a delle festività, come la pasquale pizza di latte (una specie di ciambellone con farina, latte, uova e zucchero) o il serpente, una sfoglia farcita con noci o “scurpicciata” (marmellata d’uva) e utilizzata di buon auspicio per le spose. Nella quotidianità facevano la parte dei dolci i fichi secchi e le susine, dall’alto contenuto zuccherino.